Carla Montero, L’astrologo. Trad. di Elena Rollo
Firenze, 9 aprile 1492
“Lorenzo de’ Medici è morto.” Non era l’unica preoccupazione che affliggeva Giorgio. La sua mente era un turbinio di pensieri. A volte, scivolavano via rapidi come le nuvole in cielo, altre, invece, si ammassavano come mendicanti sulla porta di una chiesa. Ma una cosa era certa, tutti iniziavano e finivano nello stesso punto: “Lorenzo de’ Medici è morto”. Il suo cadavere era ancora caldo. La vedova, i figli e gli amici lo stavano ancora piangendo. Tutta Firenze era ancora sconvolta. Ciononostante, Giorgio non era angosciato per Lorenzo de’ Medici, per la sua famiglia o per Firenze, ma per se stesso e per la sua sorte. Era rimasto tutta la notte e tutto il giorno rinchiuso nella sua bottega: in un primo momento, paralizzato dallo choc della notizia, poi, cercando di risolvere la sua situazione. Quando il sole cominciò a nascondersi dietro le colline della campagna toscana, decise che la cosa migliore era tornare a Venezia, dove tutto era cominciato, e si convinse di doverlo fare al più presto, approfittando della notte che si avvicinava. Con la fretta di chi agisce d’impulso, si accinse a radunare le sue cose, in particolare l’occorrente per dipingere, perché non aveva molti altri beni personali e perché i suoi strumenti di lavoro – pennelli, tavolozze, tele, telai e decine di composti che usava per fabbricare i colori a olio – erano i suoi averi più preziosi.
Juan Ramón Jiménez, Platero e io. Trad. di C. Bo
Platero è piccolo, peloso, morbido; tanto soffice all’esterno che si direbbe tutto di cotone, senz’ossa. Solamente gli specchi di giaietto dei suoi occhi sono duri come due scarafaggi di cristallo nero.
Lo lascio sciolto, e va verso il prato, e accarezza teneramente con il suo muso, sfiorandoli appena, i fiorellini rosa, celesti, gialli… Lo chiamo dolcemente: “Platero?”, e viene da me con un piccolo trotto allegro che sembra che rida, con il suono argentino di un sonaglio per bambini.
Mangia ciò che gli do. Gli piacciono le arance, i mandarini, l’uva moscatella, tutta d’ambra, i fichi scuri, con la loro cristallina gocciola di miele…
È tenero e coccolone come un bambino, una bambina…; però è forte e asciutto dentro, di pietra. Quando lo monto, le domeniche, per le ultime stradine del villaggio, gli uomini della campagna, vestiti a festa, si fermano a guardarlo:
“È d’acciaio…”.
È d’acciaio. Acciaio e argento di luna allo stesso tempo.