L’ultima volta che vidi Miguel Desvern o Deverne fu anche l’ultima volta che lo vide sua moglie, Luisa, il che continua ad apparire strano e forse ingiusto, dal momento che lei era questo, sua moglie, e io ero invece una sconosciuta e non avevo scambiato con lui una sola parola. Non sapevo neppure il suo nome, lo seppi soltanto quando ormai era tardi, quando comparve la sua foto sul giornale, pugnalato e mezzo scoperto e sul punto di trasformarsi in un morto, ammesso che già non lo fosse per la sua stessa coscienza assente che non tornò più a farsi presente: l’ultima cosa di cui si dovette render conto era che lo stavano accoltellando per sbaglio e senza motivo, cioè in maniera imbecille, e oltretutto una volta e poi ancora un’altra, senza via di scampo, non una sola, con l’intento di eliminarlo dal mondo e di scacciarlo senza dilazione sulla terra, seduta stante. Tardi per che cosa, mi domando. La verità è che lo ignoro. Solo che quando qualcuno muore, pensiamo che ormai si sia fatto tardi per qualunque cosa, per tutto – tanto più per aspettarlo – e ci limitiamo a darlo per cancellato. Anche i nostri congiunti, sebbene ci costi molto di più e li piangiamo, e la loro immagine ci accompagni nella mente quando camminiamo per le strade e in casa, e crediamo per molto tempo che non ci abitueremo. Ma sin dall’inizio sappiamo – sin da quando ci muoiono – che non dobbiamo più contare su di loro, neppure per le cose più insignificanti, per una telefonata banale o una domanda sciocca («Me le hai lasciate lì le chiavi dell’auto?», «A che ora uscivano oggi i bambini?»), per nulla. Nulla è nulla. In realtà è incomprensibile, perché presuppone avere certezze e questo è in contrasto con la nostra natura: quella secondo cui qualcuno non verrà più, né dirà null’altro, né muoverà mai un altro passo – né per avvicinarsi né per discostarsi -, né ci guarderà, né distoglierà lo sguardo. Non so come resistiamo, né come ci riprendiamo.
(Traduzione di Glauco Felici)