Tra gli altri edifici pubblici di una certa cittadina, che per diverse ragioni sarà per me prudente astenermi dal menzionare e alla quale neanche assegnerò un nome fittizio, ve n’è uno familiare un tempo alla maggior parte delle città, grandi o piccole che fossero, e cioè un ospizio di mendicità. E in questo ospizio, in un certo giorno, mese e anno che non devo darmi pena di precisare, giacché il conoscerli non potrà riuscire di alcuna utilità al lettore – per lo meno allo stato attuale delle cose – nacque l’articolo di mortalità il cui nome compare nel titolo di questo capitolo.
Per parecchio tempo, dopo che fu introdotto in questo mondo di dolore e sofferenza dal medico della parrocchia, si dubitò fortemente che il bambino sarebbe sopravvissuto per portare un nome qualsiasi; nel qual caso, è più che probabile che queste memorie non avrebbero mai visto la luce; o che, vedendola, e ridotte a poche pagine soltanto, avrebbero avuto l’inestimabile pregio di essere l’esempio di biografia più fedele e concisa nella letteratura di ogni età o paese.
Sebbene io non intenda affatto sostenere che nascere in un ospizio costituisca di per sé la più fortunata e invidiabile circostanza che possa capitare a un essere umano, affermo però che in questa particolare circostanza nulla di meglio sarebbe potuto capitare al giovane Oliver Twist. Fatto sì è che vi furono notevoli difficoltà nell’indurre Oliver ad assumersi in prima persona l’incarico di respirare – gravoso esercizio, certo, ma che l’abitudine ha reso necessario al conforto della nostra esistenza – e per qualche tempo egli giacque annaspando su di un materasso di stracci, pericolosamente in bilico tra questo mondo e quell’altro, ma con la bilancia che pendeva decisamente verso il secondo.
(Traduzione di Mario Martino)