Ogni passo che facevo (alla cieca, a causa della prolungata oscurità, perché il mio unico occhio era la macchina fotografica, perché ero un moderno Polifemo con l’occhio destro incollato al monocolo della Leica e l’occhio sinistro chiuso, cieco, con la mano sinistra tesa come la zampa di un cane poliziotto, avanzando a tentoni, con i piedi che a volte inciampavano, a volte sprofondavano, in qualcosa che non si vedeva, ma puzzava), ogni passo che facevo mi addentravo a poco a poco in una notte che non solo si prolungava, ma rinasceva. A Detroit, la notte nasceva dalla notte.
Lasciai ricadere per un istante la macchina fotografica sul petto, sentii il colpo secco sul diaframma (su due, il mio e quello di Leica) e l’impressione si rafforzò. Mi circondava non la lunga notte di un’alba invernale, né, come mi faceva credere l’immaginazione, un’oscurità nascente, inquieta compagna del giorno.
Quella era un’oscurità permanente. La tenebra inseparabile dalla città, la sua compagna, il suo specchio fedele. Mi bastò guardarmi attorno e trovarmi al centro di una pianura grigia, desolata, ornata qua e là di pozzanghere, sentieri fuggiaschi tracciati da piedi pavidi, alberi nudi più neri di quel paesaggio dopo la battaglia. Lontane, spettrali, si scorgevano case in rovina, case del secolo precedente con tetti cadenti, comignoli crollati, finestre cieche, verande nude, porte sgangherate e talvolta un albero secco che si avvicinava, tenero e impudico, a un sudicio lucernario. Una sedia a dondolo, rimasta sola, si cullava cigolando, ricordandomi vagamente altri tempi intuiti a stento nella memoria…
(Traduzione di Ilide Carmignani)